Prima della pandemia del Covid-19 il lavoro da remoto non era previsto. Per fronteggiare il
lockdown è stato istituito il sistema dello smart working, che ad oggi è diventato un
sistema adottato, o meglio integrato, definitivamente da molte aziende.
Ciò mette in evidenza come il tempo, i cambiamenti, abbiano portato alla convivenza di
due elementi in grande opposizione: da un lato il tradizionalismo con le sue tecniche
lavorative e organizzative ormai assodate; dall’altro la ventata di innovazione che la
digitalizzazione ha portato con sé.
Lo smart working ha apportato non solo una differente organizzazione, ma anche una
nuova cultura aziendale. Sono state introdotte nuove ideologie: innovazione e
cambiamento. Non solo, per le aziende lo smart working ha rappresentato anche una
scommessa, poiché si sono dovute digitalizzare e reinventare in tempi record.
Il remote working non è solo modernizzazione, ma anche un ottimo mezzo per verificare il
grado di accettazione delle persone rispetto alla nuova modalità di lavoro da casa.
Questa nuova modalità operativa determina e comporta: efficienza, precisione, inventiva,
competenza. Ha anche però delle implicazioni in termini di organizzazione: il trasferimento
in cloud della documentazione della maggior parte dell’infrastruttura aziendale; la messa in
sicurezza dei dati degli utenti; la creazione di un sistema di accesso che permetta di
accedere ai server.
Ad oggi il remote working è una pratica abituale o sottoscritta tramite accordo che dà ai
loro dipendenti la possibilità una o più volte a settimana di lavorare in questa modalità o
richiederla se necessario.
Alcune grandi aziende ne sono l’esempio vivente: l’Erbolario, che concede ai suoi
dipendenti un giorno di smart working a settimana; Abb Vie Italia; Banca d’Italia; Lidl Italia;
Hitachi Rail, che concede un massimo di 10 giornate lavorative al mese; Ericson.
Ma remote working non significa solo cambiamento organizzativo, ma anche sociologico,
in termini di capitale umano. Infatti, è importante considerare anche il punto di vista dei
lavoratori, i quali hanno diverse opinioni in merito a questa ventata di modernizzazione
adottata dalle aziende (chi per scelta, chi per necessità). Alcuni non notano alcuna
differenza in termini operativi; altri sostengono che questa modalità generi alienazione;
altri ancora che determini il completo annullamento della separazione tra vita privata e
ambito lavorativo (non sentendo più il distacco lavoro-casa); altri ancora sostengono che
questa modalità di lavoro metta il dipendente sempre a suo agio al punto da evitare crolli
di produttività.
Legato allo smart working c’è però anche il fenomeno del burnout. Burnout significa
letteralmente “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”; questo fenomeno ha preso piede in modo
particolare nel periodo della pandemia.
Ma di cosa stiamo parlando?
Si parla di una sindrome da stress cronico mal gestito e prolungato. Questa sindrome è
legata allo smart working per via di due fattori: l’incapacità o l’impossibilità di disconnettersi
dal lavoro; l’incapacità di avere orari precisi di attività lavorativa, come in ufficio.
Quindi smart working giusto o sbagliato?